III

L’inizio della mia carriera di critico ha coinciso con il mio avvicinamento allo studio della poetica, quando studiai nel ’34, con un maestro, il Momigliano, meno sensibile a tale tipo di ricerca, ma ben aperto ad ogni ricerca viva ed autentica, gli ultimi canti del Leopardi, individuando in essi una particolare poetica, non idillica, e facendo cosí una prima esperienza della fecondità di quel punto di vista allargato poi, nel contatto col Russo, nel ricordato libro del ’36 sul decadentismo italiano verso una decisa forma di ricostruzione della storia letteraria. Tale seconda esigenza ed esperienza venne accordandosi con quella insita nel precedente lavoro e si configurò in una prospettiva fondamentale che si discostava, per una ricerca di continuità non solo lirico-simbolica, dalle posizioni del Russo, mentre di fronte alla posizione di Anceschi, che discussi in una recensione del suo volume Autonomia ed eteronomia dell’arte[1], la mia prospettiva si individuava per una diversa volontà di integrale ricostruzione e delle personalità artistiche e della storia letteraria: con ciò reagivo, pur accettando dal Croce la squalifica del determinismo e di nessi puramente contenutistici o puramente stilistici, al monografismo monadistico di tipo crociano e all’isolamento di nuclei poetici senza svolgimento interno e senza un complesso ed effettivo dialogo con il tempo storico e con la tradizione delle loro dimensioni artistiche e culturali.

Movimento, dialogo e assunzione di problemi e condizioni artistiche e storiche, che viene tanto piú messo in evidenza nella poetica dei singoli e delle epoche artistiche: e che viene fatto valere concretamente nell’operazione di ricostruzione storico-critica e in un giudizio sulla realtà poetica che parta appunto dalla comprensione delle condizioni e degli orientamenti genetici di questa, delle particolari forme con cui la tensione alla poesia si manifesta in determinati momenti della storia umana e in determinate situazioni personali.

Poi sempre meglio la poetica mi si è chiarita (fra ripensamento ed esercizio operativo) non come elemento intellettualistico introdotto dall’esterno a infrangere la forza della poesia, non come una stampella per fantasie difettive, ma come attiva coscienza che il poeta ha, e conquista, della sua forza poetica (essa stessa in continuo fieri) e del suo impiego costruttivo nella prefigurazione e nell’attuazione delle opere cui tende come atto di coscienza attiva e operativa dell’agire poetico, della sua peculiarità e delle sue generali implicazioni, come momento concreto di confluenza, nel poeta, fra la presa di coscienza dei propri problemi vitali e della propria esperienza totale, come disposizione a tradurli in direzione artistica, come Kunstwollen precisato e individuato, come rigore dell’elaborazione inseparabile dalla mèta della sua destinazione.

Potrà a volte trattarsi di un’intenzione irrealizzata, nel senso delle buone intenzioni di cui è lastricata la via dell’inferno e della cattiva poesia, ma il vero poeta ha sempre una forte coscienza e volontà poetica, essa stessa tanto piú ricca e articolata e in sviluppo come la sua forza poetica mai generica, ma concreta e legata a momenti e fasi del suo sviluppo personale-storico.

E proprio la possibilità di sviluppo di poetica e di poesia è dei veri e grandi poeti, laddove certe forme piú istintive di temperamento poetico, certe forme di poesia primitiva (primitiva in ogni tempo a livello di angustia e povertà culturale, di succhi e di esperienza storica) rimangono al loro primo sboccio, non hanno possibilità di maturazione, rimangono ad uno stadio elementare di poetica e di poesia.

Né il vero poeta è mai assimilabile all’apprenti sorcier che scatena forze non sue e da lui non dominabili e usufruibili per una costruzione sua. Ché il poeta non è un medium né un fanciullo né l’«uccellino nel bosco», ma un uomo intero e storico, dotato di forza poetica e di coscienza e volontà operativa, munito di una costruzione intellettuale, culturale, morale la cui ampiezza e profondità è riprova della forza della sua energia di commutazione poetica.

E la nozione di poetica, mentre ovviamente presuppone una tensione poetica senza di cui la poetica non avrebbe modo di manifestarsi neppure nelle sue forme piú rozze e velleitarie, implica (sulla base di una visione della vita e della storia piú coerente a un vivo rapporto storia-persone-opere che non a quello di una storia dello spirito realizzata direttamente nelle opere) una nozione dell’arte viva e vera nei suoi nessi con tutta la storia e con tutta la vita storicamente e personalmente concretata, non trascendente e stellare e «pura» di ogni «contaminazione», senza genesi e senza sviluppo.

Una nozione che rifiuta l’equivoco iperuranio immobile di una poesia chiusa in se stessa, platonica, astorica, rifiuta (sia subito chiaro) l’annegamento della poesia in una storia generale sociale, culturale, politica cui la presenza dell’arte sia un’aggiunta inessenziale o un ornamento puramente illustrativo o decorativo nel senso piú corrente della parola. Né pezzo di cielo caduto sulla terra, né puro rispecchiamento della realtà già esistente e semplice «nuova edizione di valori già correnti in altri campi di esperienza», per dirla con il Dewey[2].

Né fuori della storia, né dopo la storia, ma viva e valida dentro la storia di cui concretamente fa parte proprio in quanto, connessa radicalmente con veri problemi concreti e storicamente vivi, ha una sua coscienza autentica, una sua autentica spinta, verso una propria peculiare consistenza. Ed ha sue tecniche, sue tradizioni, suoi problemi specifici di cui, per altro, lo studio di poetica meglio mostra la continua osmosi con le dimensioni e le esperienze culturali, etiche, sociali, politiche: e con la meditazione estetica e l’esercizio critico, nei quali sarà sempre possibile – in una rappresentazione di tendenze e di esigenze peculiari e generali – ritrovare un implicito aspetto di poetica (ogni critico, ogni pensatore estetico ha pure una sua implicita poetica) e il nesso con posizioni e problemi generali e particolari di ideologia, di cultura, di socialità, di politica entro il preciso ambito di esperienza della personalità storica.

È in questa prospettiva che si apre anzitutto una possibilità importante: quella di uno studio storico-critico che parta da una profonda conoscenza e comprensione dei documenti di poetica di un artista o di un’epoca, dal rilievo delle direzioni di poetica vive in uno svolgimento personale o nella tensione espressiva di un’epoca e di una corrente letteraria, e cosí avvii la ricostruzione intera, la interpretazione e il giudizio delle personalità, delle epoche, delle opere, attraverso la comprensione delle particolari direzioni in cui queste sono state impostate e promosse. Questo momento di comprensione è essenziale e chi lo sfugge o non lo attua convenientemente non può non ricadere nell’impressionismo, nel giudizio tendenzioso e antistorico, nella misurazione esterna, nel semplice adeguamento dell’arte a documento senza valore artistico. Perché il conveniente rilievo della poetica, come ripeto a sazietà, porta a cogliere insieme la storicità, la connessione interna e storica fra poesia e problemi letterari e non letterari, la tendenza della loro commutazione in direzione artistica entro una situazione particolare e irripetibile.

Né con ciò si aderirà a certi ingenui canoni secondo cui i critici sarebbero tenuti a seguire per ogni età e poeta i giudizi estetici e critici di quell’età e di quel poeta, né si eliminerà il riferimento ad un nostro criterio estetico critico, né si cadrà in un relativismo incapace di giudizio e di orientamento e sordo alla realtà dei testi realizzati.

È chiaro che sarebbe assurdo giustificare tutta un’epoca o un poeta o un’opera solo perché essi corrispondono alle volontà e direzioni artistiche e storiche di quell’epoca e di quel poeta in quell’opera: in certi scrittori barocchi, Rotrou ad esempio, ci sono delle autentiche cadute di gusto e di poesia e non basta ricondurle alla loro giustificazione di poetica per sottrarle ad un giudizio di risultato.

Ma il giudizio e la valutazione a cui la critica e la storia letteraria non possono sottrarsi, pena la loro riduzione a descrittiva, saranno indirizzati e commisurati con maggiore sicurezza e consapevolezza attraverso la nostra iniziale comprensione del modo con cui la tensione poetica si è configurata entro determinate situazioni generali e personali, con particolari problemi tecnici, con particolari forme di linguaggio, con particolari ragioni e condizioni letterarie e non letterarie.

Comprendere la poetica del Filicaja non significherà affatto fare del Filicaja un vero poeta, ma l’approfondimento della sua poetica, della sua tensione alla lirica alta e composta, solenne e costruita (e, sotto, il rifluire in essa delle particolari esigenze della chiarezza, organicità e regolarità della poetica arcadica e del signorile decoro dello scrittore e della sua stessa nozione di civiltà ordinata e gerarchica), ci permetterà di giudicare le sue odi piú che nel senso dell’oratoria esagitata ed urlante di cui parlò il De Sanctis, in quello di una monotona e simmetrica costruzione di discorso eloquente, e ci permetterà magari di recuperare risultati minori piú convincenti in certi suoi sonetti familiari piú direttamente legati ad una visione vitale e poetica di calmi affetti, di ordinata saggezza, di pacata malinconia.

D’altra parte, se lo studio storico-critico impiantato sullo studio della poetica dimostra la sua utilità critica e storiografica nel «situare» la nostra interpretazione-valutazione, nell’introdurla nell’orientamento di una tensione espressiva e delle sue ragioni storiche ed artistiche, una utilizzazione piena e coerente di tale strumento critico non si limiterà a individuare la poetica come un primum fermo e immutabile, un momento di chiarificazione del poeta non piú soggetto al vivo premere della poesia, là dove essa c’è, e alla dinamicità dello sviluppo della personalità poetico-storica nelle sue situazioni vitali, culturali, artistiche.

Potremo, per necessità espositiva, raccogliere magari la poetica come capitolo introduttivo di uno studio critico, ma in realtà dovremo tener conto, in tutta la nostra ricostruzione, del vivo ricambio di poetica e poesia, della loro radicale collaborazione, in quanto la poetica non è solo quella programmatica ed esplicita di dichiarazioni e riflessioni dell’artista, ma è la coscienza attiva della sua personalità poetica, è sempre in atto nel farsi della sua poesia.

Cosí si evita il rigido confronto di poetica e di poesia, si riducono i margini di pericolo di una rigida sovrapposizione di una poetica generale a tutta un’epoca ricca di tensioni molteplici anche se riconducibili a linee generali, e di una rigida sovrapposizione della stessa poetica unica del poeta alla varietà e ricchezza del suo sviluppo e alla ricchezza e alacrità di dialogo con le poetiche del suo tempo e della tradizione.

Anche la poetica va dunque intesa e fatta valere entro il concreto dinamismo della personalità e della storia, come può esemplificarsi anche in casi in cui lo spicco di una poetica esplicita sembra ridurre la poesia intera del poeta all’applicazione di un programma e di una presa di coscienza fondamentale, da parte del poeta, della sua natura, delle sue mete, del suo dialogo storico.

Si consideri, ad esempio, il caso del Foscolo e del Commento alla Chioma di Berenice in cui la critica novecentesca ha individuato l’eccezionale importanza di una personale poetica, la poetica del «passionato» e del «mirabile»[3].

Indubbiamente in quel fondamentale documento il Foscolo (fra i precedenti della sua opera anteriore e nuova tensione ad una poesia piú ambiziosa e complessa) attua una formidabile presa di coscienza delle forze della sua ispirazione, del suo animo, della sua cultura, e fa confluire in una prefigurazione del proprio operare futuro, del suo concreto Kunstwollen, tutte le sue chiarite tendenze fantastiche e gli elementi etico-politici, culturali e piú peculiarmente letterari della sua esperienza, compresenti sia nella polemica e nel confronto di propri ideali con le tendenze letterarie del suo tempo e con le ragioni generali che le motivano, sia nella proposta di una nuova poetica di valore personale e storico, commisurata ad una diagnosi della letteratura e della situazione culturale italiana con le sue implicazioni etico-politiche.

Da una parte polemica con il didascalismo razionalistico illuministico (linguisticamente quodlibetario e privo di autentica tensione poetica), con il neoclassicismo illustrativo («vuoto suono e lusso letterario» e irresponsabilità del poeta nei confronti della civiltà in cui vive anzitutto politicamente), con il preromanticismo di moda e di importazione, privo della distanza poetico-mitica e mal inseribile in una ripresa di tradizione e di letteratura nazionale. E d’altra parte, recupero di antecedenti settecenteschi (Vico, Gravina, Conti) atti a promuovere e rafforzare, con ragioni estetiche e filosofiche, la tensione foscoliana ad un nuovo didascalismo mitico, romantico-neoclassico di cui gli elementi del «passionato» e del «mirabile» sintetizzano il complesso convergere delle posizioni ideologiche e letterarie del Foscolo, delle sue esperienze poetiche e del suo mondo sentimentale e poetico in una direzione artistica maturata in un momento di eccezionale consapevolezza interiore e nella pienezza della sua forza fantastica.

Una direzione ricchissima di implicazioni e di avvii, come di svolgimenti delle precedenti esperienze anche in sede di linguaggio e di tecnica: la tensione mirabile-passionata, neoclassica-romantica, personale e storica dell’«illacrimata sepoltura»; il passaggio dall’exabrupto drammatico-lirico all’invocazione-evocazione innografica e mitica, dai sonetti minori ai maggiori; l’albeggiare del chiaroscuro come corrispettivo di una profonda sofferenza personale, storica, esistenziale e di una volontà di nuova vita poetica e culturale nella risonanza profonda e vibrante di un contrasto vitale. Ma una direzione entro la cui spinta generale sarebbe improprio considerare la successiva attività poetica foscoliana come una semplice applicazione di quella poetica, come una «dosatura» diversa del «mirabile» e del «passionato».

Mentre in effetti quella poetica si svolgerà con tutta la sua potenziale ricchezza entro le situazioni concrete del poeta, nel continuo fecondo ricambio della sua meditazione e della sua ispirazione, fra nuovi documenti di poetica, e di stimolo del suo pensiero politico, storico, letterario, alla sua concreta tensione e realizzazione poetica.

Come avviene nei Sepolcri, in cui poetica e poesia si muovono e si arricchiscono sino al grande finale mitico in una dinamica che supera la prima impostazione elegiaca e realizza a livello piú alto (con una unità in movimento ben diversa dall’ipotizzata successione di liriche autonome) l’esigenza foscoliana di una poesia personale e storica, fondatrice e salvatrice di vita e di storia proprio in quella dolorosa coscienza della caducità dell’uomo e dell’universo che profondamente giustifica il pieno sviluppo del procedimento chiaroscurale foscoliano[4].

Come avviene poi, attraverso l’approfondimento essenziale dell’Ajace[5], e nel periodo creativo delle Grazie in cui un primo tono estetico e «grazioso», piú apertamente neoclassico e pittorico, viene intimamente corretto dalla coscienza della sua insufficienza nell’impeto cupo della Ricciarda (drammaticità prima troppo facilmente elusa), nella piú salda e sottile misura interiore e stilistica della versione sterniano-didimea e nell’accordo fra la situazione personale propizia (la civiltà di Bellosguardo e il suo rapporto fra solitudine e socievolezza) e un piú alto cerchio di distanza poetica in cui le passioni e le sofferte vicende storiche fluiscono con il calore di fiamma lontana e non perciò meno reale e profonda[6].

Gli elementi della poetica dell’armonia e dell’«arcana armoniosa melodia pittrice» si precisano in una nozione di poetica piú segreta ed intima e si traducono nell’arte di arcana armonia, limpidamente vibrante di venature elegiache, del poema incompiuto. E le esigenze foscoliane di una poesia fondatrice di civiltà si rinnovano e si mutano in relazione al muoversi complesso dell’animo e dell’esperienza foscoliana in precisi[7] e storici motivi (sul fondo cupo del crollo napoleonico) di rifiuto della fraterna strage, di distinzione fra guerra di difesa e di offesa, della necessità di un assiduo ingentilimento delle passioni ferine degli uomini con implicazioni culturali e corrispettivi stilistici che portano assai lontano dalle posizioni dei Sepolcri.

Non dunque un cammino rappresentabile come pura applicazione di una poetica immobile una volta che sia stata chiarita ed enunciata, ma, sulla direzione fondamentale di una via riconosciuta come centrale, un vivo svolgimento di poetica e di poesia entro la storia dinamica della personalità foscoliana concretamente e dialetticamente condizionata, nelle sue interne ragioni, dall’esperienza del proprio tempo in tutte le sue dimensioni effettivamente avvertite e sperimentate dal poeta.

E proprio guardando al Foscolo, anche senza accogliere interamente la sua autointerpretazione in chiave politica[8], sarà chiaro che proprio lo studio storico-critico, basato sull’attenzione alla poetica, porta a configurare la rappresentazione critica della sua personalità e della sua opera non solo in un interno e generale rapporto organico fra queste e la sua intera esperienza, ma in nessi precisi (e non perciò deterministici) fra tutto ciò e la storia del suo tempo, a vedere insomma, al reagente della poetica, il modo concreto e il coerente svolgimento con cui la sua personalità si è formata e affermata traducendo in direzione artistica le sue vive esperienze di letterato e di uomo storico.

Cosí, mentre la sua poetica si collega vitalmente a tutta la sua Weltanschauung, al suo pensiero politico, alla sua esperienza e sofferenza storica, alla sua complessa cultura e attraverso queste ai problemi e alle condizioni della sua epoca irrequieta e feconda, essa si alimenta di un vivo dialogo con le esperienze letterarie e con le poetiche generali e personali del suo tempo.

E come veramente intendere e valutare tutta la ricchezza e la risposta personale dell’Ortis senza inserirlo nella tensione sentimentale culturale poetica della crisi dell’illuminismo e del preromanticismo, senza conoscere la problematica politica che ne sottende, insieme alla problematica filosofica (crisi dei valori illuministici e contrasto fra accettazione e insufficienza del meccanicismo e materialismo settecentesco), la drammaticità personale e storica, senza conoscere la situazione letteraria di fine secolo fra gli ultimi bagliori dell’edonismo classicistico-rococò, le velleità di poesia grandiosa e sublime del preromanticismo e del neoclassicismo di tono eroico e visionario, i problemi del romanzo illuministico e del romanzo preromantico autobiografico e sentimentale[9]? Come intenderne, senza di ciò, la novità e storicità del linguaggio e della tecnica lirico-eloquente narrativa? Come comprendere senza il presupposto alfieriano la nuova concezione foscoliana del letterato e sin componenti della tecnica e del ritmo del nuovo Ortis e dei sonetti minori[10]?

Tanto meglio si intende la genesi e affermazione della poesia foscoliana, la sua vita nel pieno di una storia in movimento, quanto piú se ne avverta il nascere e l’affermarsi originalmente orientato, nell’attrito fecondo di esperienze o di «occasioni» senza le quali la poesia non avrebbe avuto ragione e modo di formarsi, di estrinsecarsi e di esistere.

E certo sin la «illacrimata sepoltura» del sonetto a Zacinto rivelerà tutto il suo valore e la sua pienezza di vibrazione e di perfezione se il critico potrà ridispiegarne la tensione di poetica e di poesia che in quella si è risolta: lo sforzo foscoliano di un mito personale che recupera e supera un lungo impegno di fantasia e di linguaggio (con tutto ciò che implicano di dolente meditazione sulla sorte degli uomini, sul valore del sentimento e della persona) della poesia sepolcrale preromantica e della tensione poetica e figurativa del neoclassicismo al supremo nitore dell’immagine e dell’espressione, in un mito assoluto che ha riassorbito la gocciolante sentimentalità preromantica e ha risolto il decorativo neoclassico con la forza nuova di un linguaggio creativo e tradizionale sino all’uso rinverginato di una forma latina (illacrimatus), in un sinolo di tema, immagine e suono di insuperabile originalità e perfezione.


1 «Letteratura», I, 1937.

2 J. Dewey, L’arte come esperienza, Firenze 1951, p. 371.

3 Sulla poetica del «passionato» e del «mirabile» puntò particolarmente G. De Robertis in Linea della poesia foscoliana (Saggi, Firenze 1939). Ma proprio per la carenza di senso storico di quel critico, sensibilissimo, originale, e promotore di un «saper leggere» tutto affidato ai testi, caratteristico della civiltà letteraria della poesia «pura» e della «religione delle lettere», ma anche del disimpegno etico-politico, quella individuazione, centrata solo sulle componenti letterarie e artistiche del binomio foscoliano, si svolgeva solo come diversa «dosatura» dei due termini nel cammino fra i Sepolcri e le Grazie e dunque in un’applicazione alla fine troppo meccanica, e non storica, di una feconda intuizione.

4 Anche qui ci aiuta una definizione critica dello stesso Foscolo sul metodo del «chiaroscuro» come caratteristica dei Sepolcri (si veda il saggio sullo stato attuale della letteratura italiana di Foscolo-Hobhouse) mentre la lettera al Guillon agevola la nostra comprensione del fine pragmatico-poetico dei Sepolcri fuori di ogni tentazione ed evasione trascendente (la resurrezione delle nazioni, non dei corpi!) e la forza mitico-didascalica del grande finale di cui il Foscolo richiamava la drammatizzazione nel personaggio di Cassandra, la risonanza eroico-pessimistica del tema di Ettore e della catastrofe universale. Dietro alla quale vive tutta la drammatica concezione materialistico-idealistica del Foscolo e della crisi che riassumeva in sé nel suo sforzo di fondare valori, commutando motivi culturali in miti poetici, sul margine di una visione dolente e senza vie d’uscita religiose tradizionali. E la stessa ripresa di motivi e toni della poesia sepolcrale preromantica (da cui il Foscolo riprende la curva interrogativa come corrispettivo di un’epoca di inquiete domande cui egli vuol finalmente rispondere) non può esser considerata solo come ripresa letteraria: essa è anche tale, ma al fondo è anzitutto ripresa del problema che in quella letteratura si esprimeva: ripresa e soluzione per imagines, ma imagines che potenziano un moto intero di sentimento e di pensiero saldo e ben storico (si veda in proposito il saggio notevole del Pagliaro, L’unità dei «Sepolcri», in Nuovi saggi di critica semantica, Messina-Firenze 1957).

5 Per l’Ajace e il suo valore e significato, altissimo, nello sviluppo foscoliano, fra anticipi delle Grazie (Tecmessa e Calcante) e nuovo impeto pessimistico a base politico-esistenziale (come un Ortis piú maturo e rinnovato nella tipica spirale foscoliana), rinvio al mio saggio in «La Rassegna della letteratura italiana», 2, 1961 (ora in Carducci e altri saggi, Einaudi, Torino 19672, 19754). Esso, come altri saggi foscoliani sottocitati, e quelli alfieriani e leopardiani ricordati piú avanti, sono parti di nuove monografie cui da tempo attendo e qui annuncio come termine piú vero della mia tendenza storico-critica. Allo stesso modo i frequenti riferimenti ai miei lavori settecenteschi preannunciano una intera storia del Settecento (ora compiuta nel mio Settecento letterario nel vol. VI della Storia della letteratura italiana, Garzanti, Milano, 1968). Ciò spiega anche come il presente discorso trovi naturale appoggio soprattutto – anche se non solo – sulle zone e personalità di cui attualmente piú mi occupo.

6 Come ho chiarito in un saggio – Vita e poesia del Foscolo nel periodo fiorentino 1812-13 – del 1954 (e poi in Carducci e altri saggi, Einaudi, Torino, 1960, 19754), che indico anche come esempio della mia piú recente tendenza alla ricostruzione di intera «biografia critica» (e sul quale rimando allo scritto di C. Varese, Vita e poesia, «Criterio», 2, 1955).

7 Dico precisi perché la stessa interpretazione delle Grazie del Russo, cosí importante nella rottura della lettura puramente musicale delle Grazie (il che non toglie che la poesia delle Grazie attinga una suprema miticità e musicalità e insieme tocchi limiti chiari di proiezione metafisica e di alessandrinismo) mi pare approfondibile in una storicità piú concreta e pur non cronistica. Il Russo era mosso in ciò dalla sua preoccupazione (politicità trascendentale, storicismo lirico-simbolico, patria celeste dei poeti al di sopra delle faziose ideologie) di salvare l’autonomia poetica, la virginea incontaminatezza della poesia (oltreché da un suo impulso antigregale e libertario). Ma credo che ciò che a lui premeva (e che non è da prendersi sotto gamba come puro limite del suo crocianesimo) possa ottenersi a diverso livello di storicizzazione. Né si tratta di una questione di quantità, di piú e meno, ma proprio di una diversa prospettiva della poetica e di una interpretazione genetica intera, piú interamente sottratta al purismo crociano. Mentre (penso alle poussées vigorose ma piú disordinate del Russo dell’ultimo periodo, al saggio sul Monti, Perché il Monti fu quel poeta che fu, «Belfagor», 5, 1951) a certo storicismo piú greve di quell’alto maestro di storicismo opporrei il fatto incontrovertibile che Monti fu quel poeta che fu nell’incontro di una educazione e situazione concreta («Poeta Montius educatus fuit in aula romana») con una carenza morale e poetica personale da cui non si può prescindere se non si vuole accettare la povera scusa del Monti stesso che collegava la coerenza e libertà dell’Alfieri solo alla sua indipendenza economica. Foscolo e Leopardi potevano essere letterati «protetti» e non lo furono in forza della loro congiunta energia poetica e morale. Il «tutto» storico non può prescindere dalle disposizioni personali: esse stesse parte essenziale della storia e non perciò «anima» cattolicamente preformata o giansenisticamente predestinata; ma neppure semplice e mortificante «prodotto» di situazioni.

8 Come avviene sia nella lettera al Guillon per i Sepolcri sia nel saggio autocritico nel noto e citato scritto steso dallo Hobhouse (anche se quest’ultimo comporta un di piú di accentuazione politica nella presentazione antinapoleonica che il Foscolo intendeva fare di sé al pubblico inglese). Comunque è chiaro (e dovrà sempre piú tenersene conto di fronte ad una tradizione critica troppo portata al rifiuto di ogni poesia «civile») che il Foscolo volle essere poeta civile e che quell’impegno non può mai scordarsi né può dimenticarsi l’estrema attualità storica delle sue poesie (Sepolcri 1806, Grazie 1812-1813) e il loro vivo rapporto con momenti precisi della storia vissuta e sofferta dal Foscolo in modi poi meno cronistici e insieme meno evasivi di quelli del Monti. E si ricordi l’affermazione fondamentale che se lo scultore può rappresentare Pio VI o Napoleone, il poeta non lo può, voce com’egli è della coscienza e della responsabilità etico-politica piú profonda del tempo.

9 Uno spiraglio su questa complessità di utilizzazione di tecniche narrative e del loro supporto ideologico è costituito dal mio studio sul «Socrate delirante» del Wieland e l’«Ortis», «La Rassegna della letteratura italiana», 3, 1959, e ora in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento, La Nuova Italia, Firenze, 1963, 19763. Si vedano ora la mia introduzione all’Ortis, Garzanti, Milano, 1974, e il saggio L’Ode alla Pallavicini nello svolgimento del primo Foscolo, in Studi in memoria di Luigi Russo, Nistri-Lischi, Pisa, 1974.

10 Basti almeno pensare al sonetto Meritamente e alla presenza stimolante per esso (e per la tecnica dell’articolazione violenta e spezzata, drammatico-eloquente, portata ad esiti romantici piú aperti) del sonetto alfieriano per la Certosa di Grénoble. E l’esercizio di ritmo dei sonetti minori rifluí nel ritmo dell’Ortis 1802, specie nella parte interamente nuova.